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Il segreto di Vera Drake


La Trama
Londra, 1950. Vera Drake (I. Staunton) è una donna modello: figlia amorevole, madre e moglie affettuosa e presente, lavoratrice instancabile e generosa dispensatrice di the e sorrisi. Ha la guerra alle spalle, Vera, e la povertà attorno: il marito Stan (P. Davis) è dipendente del fratello Frank (A. Scarborough)in un officina, ed entrambi i figli, Sid (D. Mays) ed Ethel (A. Kelly) lavorano per poter permettere alla famiglia una vita dignitosa, lontana dai lussi delle case che la stessa Vera pulisce con cura e rispetto, senza disturbare, e dai vizi della cognata Joyce (H. Craney), che incombe su Frank perché compia i lavori dell’ennesima nuova casa, o compri l’ultimo modello di lavatrice, o l’agognato televisore. Vera è come il suo nome, e in silenzio, parlando con gli occhi, cerca di realizzare la felicità di chi le sta accanto, di aiutare chiunque ne abbia bisogno, dal goffo Reg (E. Marsan), solo e chiuso, accolto come un figlio, alle ragazze in difficoltà.
Queste ragazze, vittime di violenza, abusi, o semplicemente d’ingenuità, sono il segreto più grande della donna: da quasi vent’anni, infatti, attraverso un sistema artigianale, Vera si occupa, complice l’amica Lily (R. Sheen) di aborti clandestini. Non chiede alcun compenso, memore, forse, di un trauma subito lei stessa, e mai rivelato, risalente al periodo precedente al conflitto.
Non è come Vera, Lily, che alle spalle dell’amica, ricava buoni introiti procacciandosi le ragazze grazie a un giro di voci attorno a una sala da the, frequentata dai meno abbienti fra gli abitanti di Londra, che, in casi come questi, mai potrebbero permettersi il pagamento di specialisti “legali” in materia. La vita scorre così tranquilla, per Vera e la sua famiglia, fra ricordi del passato e la gioia per l’annunciato matrimonio di Ethel e Reg. Eppure, proprio con il sopraggiungere del periodo delle feste natalizie, l’equilibrio si rompe: durante un “operazione”, Vera viene riconosciuta da una vecchia collega di lavoro, e proprio sua figlia, aiutata dalla donna, rischia la morte a seguito di un infezione. Sotto la pressione dei medici e dell’Ispettore Webster (P. Wight), la madre della ragazza denuncia Lily e Vera, colpevoli, secondo la legge inglese, di un grave reato penale.
Vera, di fronte all’incredula famiglia, viene così arrestata, vedendo il suo mondo crollare quando lo stesso Ispettore le rivela dei guadagni dell’amica Lily e della possibilità più che concreta di una detenzione prolungata. Inevitabile, per la donna, sarà il confronto con la famiglia, prima ancora che con la legge, alla ricerca del perdono per una bugia che non ha mai raccontato, di un segreto custodito per generosità. Vera è colpevole secondo la legge, ma lo sarà per i suoi figli, per il marito Stan, per Frank? Dove si fermano i codici, e comincia la morale? I ricchi borghesi che giustificano l’aborto attraverso la malattia mentale di un parente sono colpevoli? E lo è Vera, che per quasi vent’anni ha aiutato queste giovani donne a riappropriarsi di loro stesse? Neppure il martello del giudice avrà una risposta, e forse, resterà soltanto il silenzio. Come quando si tiene un segreto.

Commento
Uno dei pregi maggiori dell’arte è raccontare storie, e spesso, la fortuna dell’arte stessa – in qualunque forma venga espressa – è fatta dai personaggi, dai loro visi, dai sentimenti che suscitano negli ascoltatori, in tutto quello che, attraverso le loro gioie e “vite”, comunicano, ai messaggi che portano, spesso capaci di prevaricare la stessa finalità imposta dall’autore alla sua opera.
Mike Leigh conosce bene l’importanza dei personaggi, e capita, osservando i suoi lavori, di notare quanta cura e rispetto il regista abbia per le creature che altri, più e meno grandi di lui, hanno mai avuto: le storie confezionate da questo regista – uno dei più premiati degli ultimi dieci anni – scavano in profondità nelle radici di un paese, l’Inghilterra, stando bene attente a non spezzarle, e la stessa camera, leggera e mai invasiva, entra nelle vite dei protagonisti come un fantasma, rendendo noi spettatori partecipi dei drammi come delle gioie di creature che vivono – e sopravvivono – alla mano dello stesso autore, chiedendo spazio sottovoce, come la loro cultura impone, e mostrandosi per quello che ci è necessario, senza nulla di più, o di meno. I toni difficilmente sono accesi, e morbido è il tocco, quasi anche i colpi più duri siano dati con attenzione. In questa pellicola, in particolare, la delicatezza del tema affrontato e la sua gestione sono emblematiche: l’aborto – come l’eutanasia, o la pena di morte, altri argomenti ricorrenti nel cinema “sociale” degli ultimi anni – è un terreno spigoloso, sdrucciolevole, pieno di contraddizioni e spaccature, delicato non solo nell’ambito legislativo o culturale, ma soprattutto dal punto di vista “sessuale”. Personalmente credo, infatti, che essendo l’uomo responsabile della quasi totalità degli atti di violenza carnale, così come del sistema giudiziario e della gestione della “famiglia” (si vedano, in proposito, i continui riferimenti agli “uomini di casa”, alla guerra, a una società per i tempi mostrati dalla pellicola sicuramente patriarcale, nonostante l’importanza fondamentale di figure come la stessa Vera attorno al focolare domestico), è molto facile trovarsi di fronte a due posizioni diverse fra uomo e donna, a proposito di un argomento come questo. Non è un caso, a mio parere, che la stessa madre della ragazza in pericolo protegga, nonostante le condizioni della figlia, fino all’ultimo l’operato di Vera, e la stessa poliziotta presente al momento dell’arresto, porti alla donna profonda compassione e rispetto, a dispetto dell’arroganza (ennesimo abuso?) del Sergente Vickers e dei dubbi – pur se motivati da una solida morale – dell’Ispettore Webster.
Fondamentale il confronto fra lo stesso Ispettore e Vera: “Lei ha praticato l’aborto su quella ragazza?” Risposta: “Io non lo chiamo aborto, aiuto chi è in difficoltà.”
Trovo che il regista abbia mostrato una straordinaria sensibilità – di norma assente, per natura, nell’uomo – di fronte a un argomento tutto femminile, che, forse, soltanto un’autrice come Jane Campion – come Leigh vincitrice della palma d’oro – avrebbe potuto raccontare con la stessa, misurata, intensità. Lontano, dunque, dalla rabbia di Loach, dall’estrosità di Boyle e dall’euforia di Nolan, Leigh si conferma, ancora una volta, come il miglior regista anglosassone attualmente in attività, narratore discreto e sensibile, lineare e morbido in ogni movimento disegnato dalla sua macchina, che entra nella vita dei personaggi come se fosse parte della famiglia senza rompere alcun equilibrio, smussati gli angoli di “Segreti e bugie” e la vena satirica di “Topsy-turvy”, disegnando quella che, probabilmente, è la sua opera più matura, meno ambiziosa delle precedenti pur restando, certamente, più coinvolgente.
La stessa, naturale, partecipazione che nasce sprofondando negli occhi azzurri di Vera, cela con delicatezza ogni faziosità riguardo il tema, rendendo questo distacco non un difetto, ma un pregio, incarnato, oltre che dalla straordinaria protagonista, dall’apporto fondamentale del marito Stan: in uno dei momenti più intensi della pellicola, il confronto con il figlio dopo le rivelazioni a proposito dell’operato della moglie, Sid chiede al padre per quale motivo egli sia così ostinato e deciso a difendere Vera, bugiarda e colpevole ai suoi occhi, senza battere ciglio, e se abbia il coraggio di chiedergli di perdonarla. Stan risponde più che istintivamente, privo di ogni dubbio come solo l’amore più grande sa essere: “Sì, la devi perdonare, figliolo. Qualsiasi cosa abbia fatto, è tua madre, e lei sarebbe capace di perdonarti tutto.”
Tutto avviene come sottovoce, lasciando rabbia e sensazionalismi ai colleghi più malleabili di Hollywood o a chi, come il Leone d’argento Amenabar, in California vorrebbe al più presto mettere piede. Mike Leigh non cerca una strada, ma, da grande narratore, fa quello che gli riesce meglio: forse il suo destino non sarà quello di firmare pellicole per i “cugini” oltreoceano, ma, io credo, molti fra gli “integralisti” della cultura Bush, o i ferventi sostenitori dei dogmi religiosi, o “maschili”, della nostra tanto avanzata Europa, dovrebbero trarre buoni consigli da chi, saggiamente, consigli tende a non darne.
Sarebbe bello riflettere noi stessi, senza gridare, e, chissà, provare, almeno una volta a immaginare come sarebbe il mondo, se fossimo tutti più propensi ad ascoltare: forse la storia non si ripeterebbe, e i narratori non sarebbero confinati su un isola.
Rischiano di sentirsi soli, lì dove sono, e credo che Vera avesse ragione a invitarli a cena.
“Questo è il Natale più bello che ho passato in tutta la mia vita”, dice sommesso Reg, di fronte alla famiglia raccolta in una festa triste prima del processo.
La gratitudine non ha bisogno di commenti. E la generosità di leggi.

Continua

   
Gianmarco    
 
   
 
  Titolo:
Il segreto di Vera Drake

Sottotitoli:
Italiano .

Formato:
Nessuna specifica segnalata.

Regia:
Mike Leigh.

Lingue:
Italiano, Inglese.

Cast:
Imelda Staunton, Philip Davis, Jim Broadbent, Heater Craney, Peter Wight, Adrian Scarborough, Daniel Mays, Alex Kelly, Ruth Sheen.

Durata: 123'

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