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                                      La Tecnica 
                                      Basterebbe, per dare un quadro preciso di 
                                      quale sia, ormai, il livello tecnico raggiunto 
                                      da Martin Scorsese e dalla sua troupe, il 
                                      movimento di macchina che segue DiCaprio/Hughes 
                                      e Blanchett/Hepburn durante il bacio che 
                                      li conduce allo studio nell’immensa 
                                      casa del magnate: con un tocco delicato 
                                      e leggero come non se ne vedevano da “L’età 
                                      dell’innocenza” (The age of 
                                      innocence, Martin Scorsese, 1993), una confezione 
                                      perfetta e una classe cristallina si intuisce 
                                      quanto, per alcuni registi, poche inquadrature 
                                      siano necessarie per sintetizzare la parola 
                                      “talento”: se poi non fossero 
                                      sufficienti, i ventiquattro premi raccolti 
                                      fra la notte degli Oscar, l’American 
                                      Film Institute, la Boston Society of film 
                                      critics, i British Academy Awards, la Broadcast 
                                      Films Critics Association, la Chicago Film 
                                      Critics Association, i Golden Globes, la 
                                      L.A. Film Critics Association, la National 
                                      Society of film critics, la Producer’s 
                                      Guild of America, lo Screen Actor’s 
                                      Guild e la Writers Guild of America divisi 
                                      equamente fra attori, tecnici, film e regia 
                                      parlano da sé. Scorsese potrà 
                                      essere accusato di freddezza e accademismo, 
                                      ma certo con questo suo “The Aviator” 
                                      il regista italo-americano vola in uno dei 
                                      cieli più alti della sua pur luminosissima 
                                      carriera. Certo, i fan di Taxi Driver (Taxi 
                                      Driver, Martin Scorsese, 1976) e Mean Streets 
                                      (Mean Streets, Martin Scorsese, 1973) potranno 
                                      storcere il naso di fronte a tanta magniloquenza 
                                      di linguaggio, ma difficilmente – 
                                      soprattutto nelle ultime stagioni cinematografiche, 
                                      e pensando all’opera di tutti i giovani 
                                      registi attualmente in circolazione – 
                                      entrando in una sala si ha l’occasione 
                                      di assaporare così a fondo l’idea 
                                      stessa di cinema. 
                                      Proseguendo nell’analisi degli aspetti 
                                      tecnici, non è possibile non citare 
                                      lo straordinario lavoro di Thelma Schoonmaker 
                                      al montaggio, collaboratrice storica di 
                                      Scorsese e, di certo, fra i tre migliori 
                                      montatori al mondo in questo momento; con 
                                      lei un altro maestro, quel Dante Ferretti 
                                      sempre troppo poco premiato, autore di scenografie 
                                      mai a livelli così alti e raffinati. 
                                      Splendida la fotografia di Robert Richardson, 
                                      che filtra i momenti del ventennio narrato 
                                      nel corso del film attraverso i colori, 
                                      dipingendo quadri di eleganza sopraffina. 
                                      Perfetti costumi e trucco, in pieno rispetto 
                                      dello spirito dell’epoca raccontata, 
                                      così come funzionali e mai invasivi, 
                                      per quanto presenti in quantità, 
                                      gli effetti speciali, abile mix (come si 
                                      evincerà dal documentario nei contenuti 
                                      extra) di modellini, riprese strette sui 
                                      particolari e utilizzo del computer.  
                                      Epica al punto giusto quanto efficace la 
                                      colonna sonora, pur se a tratti invasiva, 
                                      forse l’aspetto tecnico meno “perfetto” 
                                      della pellicola. Per quanto riguarda il 
                                      cast, invece, nonostante i detrattori – 
                                      e sono numerosi – DiCaprio si difende 
                                      molto bene, dimostrando sul campo la fiducia 
                                      in questo progetto, dallo stesso attore 
                                      fortemente voluto e proposto a Scorsese. 
                                      Il protagonista di Titanic (Titanic, James 
                                      Cameron, 1996), liberatosi dall’eterna 
                                      aura di ragazzino della prima parte della 
                                      pellicola, da il meglio di sé quando 
                                      mostra la malattia e lo squilibrio del magnate, 
                                      risultato di studi attentissimi e sedute 
                                      di preparazione con un paziente affetto 
                                      dalla stessa sindrome di Howard Hughes. 
                                      Bravissima Cate Blanchett nel ruolo di Katherine 
                                      Hepburn, una spanna sopra le sue “colleghe” 
                                      Jean Harlow (Gwen Stephani) e Ava Gardner 
                                      (Kate Beckinsale). Ottimi come comprimari 
                                      John Reilly e Matt Ross, splendidi “cattivi” 
                                      Alec Baldwin e la “rivelazione” 
                                      Alan Alda, ma, pur relegato a una parte 
                                      di macchietta, straordinario Ian Holm, che 
                                      ancora una volta da prova di essere un attore 
                                      di incredibile talento al pari di molti 
                                      suoi coetanei più blasonati.  
                                      Come di consueto vado a chiudere citando 
                                      le tre scene che più hanno colpito, 
                                      nel corso della visione, il mio immaginario 
                                      di spettatore: comincio con l’incredibile 
                                      sequenza dell’incidente di volo su 
                                      Beverly Hills del 1946, perfetta alchimia 
                                      di montaggio, tensione narrativa ed effetti 
                                      speciali; lo schianto del velivolo è 
                                      stato realizzato con un modello in scala 
                                      minore e una combinazione di riprese da 
                                      cinque camere differenti dai particolari 
                                      del carrello e delle ali fino allo schianto 
                                      conclusivo. Di seguito segnalo lo splendido 
                                      passaggio legato al momento di maggiore 
                                      crisi di Hughes, quando, in seguito al trauma 
                                      dell’incidente e dell’andamento 
                                      negativo degli affari, il magnate si rinchiude 
                                      nella sua sala di proiezione privata, divenendo, 
                                      a tutti gli effetti, una sorta di Cristo 
                                      ustionato sul cui corpo ormai deformato 
                                      per oltre il 60% sono proiettate le immagini 
                                      dei vecchi film girati dallo stesso Hughes. 
                                       
                                      Concludo citando la conclusione, che andrebbe 
                                      raccolta in un blocco che dovrebbe racchiudere 
                                      il processo, il collaudo dell’Hercules 
                                      e il dialogo conclusivo con Dietrich e Odekirk, 
                                      ma mi limito a segnalare il momento in cui, 
                                      di fronte allo specchio, in piena crisi 
                                      da sindrome OCD, DiCaprio/Hughes rivede 
                                      se stesso bambino in un momento di alto 
                                      lirismo onirico che pare quasi una visione 
                                      retroattiva del futuro, fulcro delle sue 
                                      imprese e serbatoio dei folli sogni che 
                                      da sempre hanno guidato ogni avventura dell’ 
                                      “Aviatore”. 
                                      
                                      
                                      Contenuti Extra 
                                      La 01 Distribution, con l’edizione 
                                      a doppio disco di “The Aviator” 
                                      ha realizzato uno degli apparati di contenuti 
                                      extra più ampio ed esaustivo che 
                                      mi sia mai capitato di analizzare, toccando 
                                      quasi ogni aspetto realizzativo della pellicola 
                                      e raccontando nel dettaglio la figura di 
                                      Howard Hughes anche oltre i confini temporali 
                                      dettati dalla pellicola.  
                                      Il secondo disco dell’edizione si 
                                      apre con la scena eliminata che amplifica 
                                      il confronto fra Hughes e Ava Gardner a 
                                      proposito del “prezzo di una persona”: 
                                      probabilmente tagliata per motivi legati 
                                      al “politically correct”, risulta 
                                      comunque molto incisiva, peccato non sia 
                                      stata inserita nel final cut. 
                                      La successiva sezione del disco si occupa 
                                      del “Making of”, grazie a un 
                                      breve documentario che, partendo dalle interviste 
                                      a regista e attori, nonché dei biografi 
                                      ufficiali di Hughes, passa dalla figura 
                                      storica del magnate alla sua interpretazione 
                                      fornita da DiCaprio, che spende parole lusinghiere 
                                      per il regista e le sue colleghe, interpreti 
                                      perfette secondo la sua opinione, per dare 
                                      volto a due grandi attrici quali Katherine 
                                      Hepburn e Ava Gardner.  
                                      E’ dunque il momento di un documentario 
                                      abbastanza breve ma molto esaustivo sul 
                                      profondo legame che intercorre fra Howard 
                                      Hughes e il progresso dell’aviazione 
                                      civile e militare negli Stati Uniti così 
                                      come nel mondo: fin dalla giovane età 
                                      di quattordici anni, infatti, il giovane 
                                      milionario manifestò grande interesse 
                                      per gli aerei e le loro applicazioni, sfogando 
                                      lo stesso dapprima attraverso imprese straordinarie 
                                      quali i record di velocità ottenuti 
                                      fra il 1935 e il 1937, poi sviluppando ed 
                                      applicando i suoi concetti di innovazione 
                                      e confort durante un volo alla compagnia 
                                      che rilevò quasi dal nulla portandola 
                                      al successo mondiale: la TWA. Il tutto senza 
                                      dimenticare le sue spericolate imprese da 
                                      produttore e regista cinematografico, le 
                                      storie d’amore e di gossip con le 
                                      donne più belle dell’epoca, 
                                      i quattro incidenti aerei di cui fu protagonista, 
                                      le innovazioni apportate dal suo staff trainato 
                                      dalle indicazioni dello stesso magnate (il 
                                      carrello retrattile, la cabina pressurizzata, 
                                      il volo oltre le nuvole), il titanico progetto 
                                      dell’Hercules e la sua malattia, amplificata 
                                      dagli effetti della morfina iniettatagli 
                                      durante la degenza a seguito del suo peggior 
                                      incidente. Il capitolo successivo, una lunga 
                                      intervista ad Alan Alda e Leonardo DiCaprio 
                                      durante una serata di presentazione della 
                                      pellicola registrata prima della notte degli 
                                      Oscar, presenta due attori diversi per età, 
                                      metodo, approccio ma profondamente legati 
                                      da rispetto e amicizia: molto divertenti 
                                      gli aneddoti e i siparietti inscenati dai 
                                      due nel corso del dibattito, ove si spazia 
                                      dalla nomination come miglior attore non 
                                      protagonista di Alda fino alla passione 
                                      messa da DiCaprio – anche produttore 
                                      – in questo progetto, fin dalla prima 
                                      lettura da parte dell’attore di una 
                                      biografia di Hughes fino alla proposta a 
                                      Michael Mann – anch’egli produttore 
                                      –, John Logan – sceneggiatore 
                                      – e Martin Scorsese.  
                                      A seguito troviamo le interessanti sezioni 
                                      legate agli aspetti “tecnici” 
                                      del film, dagli effetti speciali, supervisionati 
                                      dal regista della seconda unità Rob 
                                      Legato – nati dall’alchimia 
                                      di modellini, riprese in esterna con luce 
                                      naturale e utilizzo del computer – 
                                      alle scenografie, introdotte dal “nostro” 
                                      Dante Ferretti, ormai alla sua sesta collaborazione 
                                      con Scorsese – un vero maestro per 
                                      ogni production designer, artista dell’arredamento 
                                      e della resa fedele delle ricostruzioni, 
                                      basti pensare alla sua Hollywood Boulevard 
                                      ricostruita di poco più grande a 
                                      Montreal – fino ai costumi – 
                                      coordinati da Sandy Powell, che illustra 
                                      in particolare il percorso “degenerativo” 
                                      interiore di Hughes attraverso i suoi abiti 
                                      – e al trucco – altro lavoro 
                                      di ricerca straordinario compiuto da un 
                                      equipe che, soprattutto con le interpreti 
                                      femminili, stando alle indicazioni di Scorsese, 
                                      ha dovuto ricercare lo spirito dei singoli 
                                      personaggi, più che una trasformazione 
                                      degli stessi come sosia -. 
                                      Chiude la parte “tecnica” la 
                                      sezione dedicata ad Howard Shore e alla 
                                      colonna sonora, con l’analisi delle 
                                      fasi che portano il compositore alla realizzazione 
                                      finale, dalla prima lettura del copione 
                                      all’interiorizzazione del girato per 
                                      gli aggiustamenti rispetto alle prime “visioni” 
                                      legate alla lettura stessa. 
                                      Inizia dunque la lunghissima parte dedicata 
                                      alla figura di Howard Hughes, spezzata in 
                                      due capitoli: il primo, un documentario 
                                      di History Channel, ripercorre l’intera 
                                      vita del magnate, dal suo rapporto con i 
                                      genitori fino alla loro morte, dalla sua 
                                      prima fortuna – legata all’invenzione 
                                      paterna di una particolare trivella per 
                                      l’estrazione del petrolio – 
                                      fino alle imprese Hollywoodiane di “Angeli 
                                      dell’inferno” (il film più 
                                      costoso dell’epoca) e della produzione 
                                      di pellicole come “Scarface”, 
                                      all’epoca considerato eccessivamente 
                                      violento da quasi tutte le “major”. 
                                      Attraverso testimonianze di biografi, aneddoti, 
                                      filmati d’epoca, l’intero affresco 
                                      dell’esistenza di Hughes – anche 
                                      oltre il ventennio illustrato dalla pellicola 
                                      – rivela un uomo controverso, criticabile, 
                                      taciturno, dal pessimo rapporto con l’esterno 
                                      e la stampa, non ultimo a causa del suo 
                                      disturbo ossessivo per i germi amplificato 
                                      dalle conseguenze dell’incidente su 
                                      Beverly Hills del 1946.  
                                      Eppure, al contempo, Howard Hughes fu una 
                                      sorta di genio dell’innovazione, e 
                                      pur non avendo specifiche conoscenze tecniche 
                                      o titoli, la sua voglia di progresso si 
                                      tradusse spesso nelle imprese non soltanto 
                                      compiute fisicamente come aviatore, quanto 
                                      come trascinatore degli ingegneri e uomini 
                                      di scienza di cui negli anni si circondò. 
                                      Dal suo volo intorno al mondo – massima 
                                      impresa dello Hughes pilota – fino 
                                      al breve, effimero decollo dell’Hercules 
                                      – il più grande idrovolante 
                                      che mai abbia preso quota – passando 
                                      attraverso il suo processo, l’acquisizione 
                                      della TWA e il progressivo peggioramento 
                                      della malattia, che lo condusse all’isolamento 
                                      negli ultimi dieci anni di vita in una suite 
                                      dai vetri oscurati in un hotel di Las Vegas. 
                                      Questo non gli impedì di continuare 
                                      a portare avanti il suo impero divenendo 
                                      al contempo il più grande proprietario 
                                      terriero del Nevada e l’uomo più 
                                      ricco d’America, nonché finanziatori 
                                      di un numero incredibile di progetti militari 
                                      e scientifici dall’importanza fondamentale 
                                      a tutt’oggi, come lo sviluppo del 
                                      primo satellite che permise la diretta televisiva 
                                      mondiale, i missili a puntamento elettronico 
                                      o il moderno letto d’ospedale. Chiusosi 
                                      in se stesso e preda di manie sempre crescenti, 
                                      denutrito e nell’oblio della dipendenza, 
                                      Howard Hughes morì nel trasporto 
                                      aereo dalla suite di Las Vegas all’ospedale 
                                      di Houston nel 1976. Il secondo capitolo 
                                      della sezione dedicata a Hughes ci informa 
                                      sui dettagli della OCD, sindrome ossessivo 
                                      compulsava di cui il magnate era affetto. 
                                      Attraverso il racconto della preparazione 
                                      del personaggio da parte di DiCaprio – 
                                      che ha lavorato con un paziente di OCD – 
                                      e le spiegazioni scientifiche del consulente 
                                      medico per la pellicola, apprendiamo i dettagli 
                                      di una malattia per la quale Hughes, a detta 
                                      dello stesso consulente, non ebbe assistenza 
                                      psicologica adeguata.  
                                      Chiude la sezione degli extra un excursus 
                                      sulla famiglia Wainwright, dal padre Loudon 
                                      ai figli Rufus e Martha, tutti compositori 
                                      e cantanti, che interpretano nelle diverse 
                                      epoche i “frontmen” del Coconut 
                                      Grove, locale utilizzato da Scorsese e Ferretti 
                                      come clessidra della pellicola, dai colori, 
                                      alla moda, alla musica fino alle vicende 
                                      stesse dei protagonisti dagli anni ’20 
                                      ai ’40. 
                                      Come detto, splendida la confezione – 
                                      in particolare l’edizione a doppio 
                                      disco – così come la resa audio 
                                      e video della pellicola. Plauso a un edizione 
                                      davvero “deluxe”. 
                                      
                                     
                                      
                                      Commento Finale 
                                      Confesso che da tempo aspettavo l’ultima 
                                      fatica di Scorsese, ancora scottato dalla 
                                      pur parziale delusione del comunque buono 
                                      “Gangs of New York”: eppure, 
                                      entrato in sala e nonostante le lusinghiere 
                                      recensioni, non avrei mai creduto di trovarmi 
                                      di fronte un regista ancora così 
                                      pieno d’energie sommate ad una indiscutibile 
                                      – e, a questo punto, intramontabile 
                                      – classe.  
                                      Una delle migliori biopic uscite negli ultimi 
                                      anni, e sicuramente un opera che, in futuro, 
                                      verrà presa a modello come autentica 
                                      lezione di filmmaking.  
                                      Citando di nuovo lo Hughes aviatore figlio 
                                      del grande schermo, direi proprio che la 
                                      settima arte non poteva trovare un modo 
                                      migliore per farci volare nel nuovo millennio. 
                                      Mai come ora, grazie a Scorsese e al suo 
                                      Aviator, il cinema “ è il mezzo 
                                      del futuro”. 
                                    Indietro 
                                        
                                       
                                     
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